Ritratti a colori
Ritratti a colori è la mostra con la quale l’artista Diana Palù apre il secondo capitolo di una narrazione per immagini inerente la sfera del femmineo, già inaugurata l’anno scorso con Legami, temporanea nella quale la vasta cornice di riferimento fu proposta in scatti fotografici che immortalavano la declinazione del tema nei rapporti affettivi tra donne. Non è un caso se protagonista del progetto artistico di quest’anno sia ancora una volta la donna, o meglio la purezza femminile colta nella sua spiritualità interiore e nella sua bellezza formale.
Stimolata e mossa da alcune letture personali, in particolar modo dalle riflessioni filosofiche di Empedocle sulla teoria del colore, Palù ha scelto di immortalare con la delicatezza e l’eleganza che le sono proprie nove volti di donna. I lineamenti gentili, i morbidi incarnati e gli sguardi intensi compongono il puzzle di una bellezza nobile e quasi atavica, riflesso di un’intimità invitata ad esprimere alcuni concetti primordiali ai quali rimandano le pennellate di colore tracciate sui visi. In un interessante gioco di complicità e reciprocità, i nove volti sono chiamati a dare espressione ai colori ed ai loro significati, e al contempo gli stessi colori rafforzano le peculiarità dei volti, in una completa fusione di interiorità ed esteriorità, di spiritualismo e contingenza.
Nove donne ritratte secondo quanto l’eredità della produzione pittorica della scuola nordica insegna ancora oggi: dall’indagine minuziosa dei particolari e dal raffinato naturalismo dei dettagli dei fiamminghi quattrocenteschi, alla posa di tre quarti dei modelli ed al chiaroscuro caravaggesco degli artisti seicenteschi della scuola di Utrecht e successivamente, in parte, di Michiel Sweerts e Jan Vermeer. Se il riferimento alla nota Ragazza con turbante di quest’ultimo è immediato e di facile comprensione, più velate sono le suggestioni della ritrattistica di Sweerts, pittore fiammingo poco più anziano di Vermeer, la cui cifra di magistrale equilibrio tra luce naturalistica di matrice caravaggesca e compostezza compositiva classicista si ritrova nell’eleganza formale degli scatti di Palù.
Ma l’accenno al classicismo nel lavoro della giovane fotografa penetra ben oltre i formalismi, muovendosi su un piano meno tecnico e più emozionale o, ancor più, evocativo nel quale, come già accennato sopra, i nove colori tracciati con pennellate materiche su ciascuno dei volti ritratti mirano a rappresentare sensazioni, stati d’animo, forze vitali e concetti che le modelle stesse sono chiamate a dare volto attraverso le loro espressioni. Come dunque non pensare alle divinità ed alle eroine della mitologia classica, personificazioni raffinate e al contempo violente di quella chiassosa commistione di emozioni e sensazioni che è il sesso femminile inteso come madre e forza generatrice, come figlia, come compagna fedele o sensuale tentatrice. E da qui il rimando alla statuaria classica, a quelle corpulenti e delicate figure femminili scolpite tenacemente su pietra, al senso estetico di bellezza che trasuda dai marmi delle Afroditi del IV secolo a. C. e della prima età ellenistica, ed alla purezza della nudità dei loro incarnati levigati.
Se dunque nelle donne ritratte da Palù, spogliate delle vesti e delle maschere della modernità che vivono, si ritrova un’allusione alle antiche sculture mitologiche e divine femminili, al contempo le pennellate colorate tracciate sui volti riecheggiano i residui pigmentati rinvenuti nella produzione scultorea classica, scoperta che scardinò l’assioma winckelmanniano di una “immagine uniformemente biancheggiante dell’antichità”, usando l’espressione del professore Antonio Pinelli. Provando difatti ad osservare gli scatti di Palù considerando le pennellate come uniche tracce pigmentate su una superficie neutrale, si svela questo cauto equilibrio tra colore e non-colore. Ritengo opportuno definirlo equilibrio anziché contrasto: così come la pigmentazione arricchisce di valore la statuaria classica, allo stesso modo le suddette pennellate completano di significato gli scatti nel progetto artistico di Palù, rafforzando e non già offuscando la carica emotiva femminile.
Con un uso del colore non inteso come mero strumento decorativo, ma funzionale a sottolineare le immagini stesse dei volti e ad evocarne delle altre, l’artista Diana Palù si sperimenta ancora una volta brillantemente con il mondo della donna, della quale ritrae la genuina bellezza esteriore senza però tralasciarne l’intensa portata interiore nei suoi volti più intimi.
TANIA MIO BERTOLO
Ritratti a colori è la mostra con la quale l’artista Diana Palù apre il secondo capitolo di una narrazione per immagini inerente la sfera del femmineo, già inaugurata l’anno scorso con Legami, temporanea nella quale la vasta cornice di riferimento fu proposta in scatti fotografici che immortalavano la declinazione del tema nei rapporti affettivi tra donne. Non è un caso se protagonista del progetto artistico di quest’anno sia ancora una volta la donna, o meglio la purezza femminile colta nella sua spiritualità interiore e nella sua bellezza formale.
Stimolata e mossa da alcune letture personali, in particolar modo dalle riflessioni filosofiche di Empedocle sulla teoria del colore, Palù ha scelto di immortalare con la delicatezza e l’eleganza che le sono proprie nove volti di donna. I lineamenti gentili, i morbidi incarnati e gli sguardi intensi compongono il puzzle di una bellezza nobile e quasi atavica, riflesso di un’intimità invitata ad esprimere alcuni concetti primordiali ai quali rimandano le pennellate di colore tracciate sui visi. In un interessante gioco di complicità e reciprocità, i nove volti sono chiamati a dare espressione ai colori ed ai loro significati, e al contempo gli stessi colori rafforzano le peculiarità dei volti, in una completa fusione di interiorità ed esteriorità, di spiritualismo e contingenza.
Nove donne ritratte secondo quanto l’eredità della produzione pittorica della scuola nordica insegna ancora oggi: dall’indagine minuziosa dei particolari e dal raffinato naturalismo dei dettagli dei fiamminghi quattrocenteschi, alla posa di tre quarti dei modelli ed al chiaroscuro caravaggesco degli artisti seicenteschi della scuola di Utrecht e successivamente, in parte, di Michiel Sweerts e Jan Vermeer. Se il riferimento alla nota Ragazza con turbante di quest’ultimo è immediato e di facile comprensione, più velate sono le suggestioni della ritrattistica di Sweerts, pittore fiammingo poco più anziano di Vermeer, la cui cifra di magistrale equilibrio tra luce naturalistica di matrice caravaggesca e compostezza compositiva classicista si ritrova nell’eleganza formale degli scatti di Palù.
Ma l’accenno al classicismo nel lavoro della giovane fotografa penetra ben oltre i formalismi, muovendosi su un piano meno tecnico e più emozionale o, ancor più, evocativo nel quale, come già accennato sopra, i nove colori tracciati con pennellate materiche su ciascuno dei volti ritratti mirano a rappresentare sensazioni, stati d’animo, forze vitali e concetti che le modelle stesse sono chiamate a dare volto attraverso le loro espressioni. Come dunque non pensare alle divinità ed alle eroine della mitologia classica, personificazioni raffinate e al contempo violente di quella chiassosa commistione di emozioni e sensazioni che è il sesso femminile inteso come madre e forza generatrice, come figlia, come compagna fedele o sensuale tentatrice. E da qui il rimando alla statuaria classica, a quelle corpulenti e delicate figure femminili scolpite tenacemente su pietra, al senso estetico di bellezza che trasuda dai marmi delle Afroditi del IV secolo a. C. e della prima età ellenistica, ed alla purezza della nudità dei loro incarnati levigati.
Se dunque nelle donne ritratte da Palù, spogliate delle vesti e delle maschere della modernità che vivono, si ritrova un’allusione alle antiche sculture mitologiche e divine femminili, al contempo le pennellate colorate tracciate sui volti riecheggiano i residui pigmentati rinvenuti nella produzione scultorea classica, scoperta che scardinò l’assioma winckelmanniano di una “immagine uniformemente biancheggiante dell’antichità”, usando l’espressione del professore Antonio Pinelli. Provando difatti ad osservare gli scatti di Palù considerando le pennellate come uniche tracce pigmentate su una superficie neutrale, si svela questo cauto equilibrio tra colore e non-colore. Ritengo opportuno definirlo equilibrio anziché contrasto: così come la pigmentazione arricchisce di valore la statuaria classica, allo stesso modo le suddette pennellate completano di significato gli scatti nel progetto artistico di Palù, rafforzando e non già offuscando la carica emotiva femminile.
Con un uso del colore non inteso come mero strumento decorativo, ma funzionale a sottolineare le immagini stesse dei volti e ad evocarne delle altre, l’artista Diana Palù si sperimenta ancora una volta brillantemente con il mondo della donna, della quale ritrae la genuina bellezza esteriore senza però tralasciarne l’intensa portata interiore nei suoi volti più intimi.
TANIA MIO BERTOLO